«Voi, là fuori, avete molto spazio e poco tempo, noi, qui, invece abbiamo poco spazio e molto tempo».

È questa l’amara e lapalissiana constatazione, espressa durante un esame di Storia e Tecnica della Fotografia, che di svolgeva nel carcere romano di Rebibbia, da uno degli esaminati, mentre si rifletteva sulle due dimensioni, quella del tempo e quella dello spazio, che sono proprie della natura e del’epistemologia della fotografia. Infatti lo spazio è quella scena del mondo reale del quale lo scatto fotografico coglie un attimo dell’esistere, mentre il tempo fissa il momento fugace di una vita che scorre.

Lo svolgimento degli esami a Rebibbia spesso insegna a me più di quanto io vada verificando quanto abbia insegnato agli studenti.

Un’altra volta si discuteva, con un altro esaminato, sulla funzione sostitutiva che la fotografia svolge nei confronti dell’immagine di cui  costituita. Si tratti infatti di un paesaggio o di una veduta di una città oppure di un ritratto di persona, l’icona fotografica ne fa le veci,dando a chi la possiede o la conserva la possibilità di avere con sé il referente raffigurato.

Per meglio dimostrare questo assunto, che ha determinato l’affermazione della fotografia, a partire dal giorno dell’annuncio ufficiale della sua invenzione, 7 gennaio 1839, usavo portare ad esempio quanto parte affettiva, ma anche di realtà virtuale, abbiano le fotografie delle persone care che tutti portano con sé.

Ma l’esaminato, con felice intuizione e stringente ragionamento, mi fece osservare che ancor miglior prova del suddetto assunto fosse come la funzione virtuale, appena richiamata, si verificasse all’interno della sua cella sulle cui pareti le fotografie dei suoi cari e della sua città avessero acquistato una loro vita propria, consentendogli così di averli vicini come presenti.

In questo mi ritornava alla mente il racconto antico riferito da Plinio il Vecchio della fanciulla greca di Corinto, che delineò il profilo del suo amato seguendone l’ombra proiettata sulla parete da un lucerna affinché, dopo la partenza di quello per la guerra, ella avesse potuto averlo vicino.

Di nuovo uno studente, com’è bello e giusto, insegnava qualcosa al docente.

Così quando esco, alla fine della mattinata, da quel edificio di pena dolorosa, ché tale mi appare la costrizione continuata in uno stesso luogo, anche se causata da colpe e delitti effettivamente commessi, mi sento comunque beneficiato di una sorte quasi immeritata, di un privilegio comunque fragile, come se le condizioni del vivere comune fossero sempre nelle mani di un destino invisibile e impenetrabile.

Porto così con me immagini di volti e sorrisi sinceri di chi mi ha accolto, di loro ho nella memoria della mia coscienza altrettante fotografie impalpabili, che si raccolgono nell’archivio dei miei ricordi più vivi.

Si mostra così quanto mai sia vera la convinzione che l’istruzione, se anche non salva, di certo dà gli strumenti della salvezza, della formazione della coscienza civile e quindi aiuta a procedere sulla via della personale libertà e del riconoscimento della comune fratellanza.

Ma perché l’istruzione possa capovolgere le sorti di chi nasce  o cresce in una dimensione priva della gioia di vivere e di orizzonti in cui dar forma a ciò che porta in se stesso (per dirla con Maritain), è quanto mai necessario che la società e lo Stato si impegnino e facciano con maggior concretezza dell’istruzione l’obbiettivo primario e indiscutibile della formazione di ogni loro cittadino.

In questa prospettiva gli studenti di Rebibbia mettono in atto un recupero che gli fa onore e sono d’esempio, tra l’altro, a tanti altri studenti più fortunati.

La storia della fotografia e la sua eredità, che è la civiltà dell’immagine, dalle immagini a stampa su giornali, libri e manifesti, al cinema, alla televisione e agli smartphone, rappresenta una possibilità di riflessione e comunicazione quanto mai suggestiva e trainante negli angusti ambienti del carcere. Essa non solo riporta alla coscienza il senso profondo dei ricordi personali fatti di immagini, ma insegna che il vero aver visto è  costituito essenzialmente dalle fotografie della memoria e che nella memoria agiscono fino alla fine dei giorni.

Abstract

La storia della fotografia rappresenta una possibilità di riflessione e comunicazione quanto mai suggestiva e trainante negli angusti ambienti del carcere. Essa non solo riporta alla coscienza il senso profondo dei ricordi personali fatti di immagini, ma insegna che il vero aver visto è  costituito essenzialmente dalle fotografie della memoria e che nella memoria agiscono fino alla fine dei giorni.

The history of photography is a chance for reflection and communication all the more striking and driving in confined prison environments. It not only brings to consciousness the deep sense of personal memories made ​​up of images, but teaches that the true seeing is essentially made from photographs of the memory and in the memory act until the end of days

Alberto Manodori Sagredo è docente a contratto di Storia e tecnica della fotografia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata” . Tra le sue numerose pubblicazioni Ha pubblicato articoli su temi culturali su quotidiani e periodici :Curatore della prima serie della collana Roma archeologica, coautore delle opere: I Rioni e i Quartieri di Roma, Storia di Roma per le edizioni Newton & Compton: Tra i suoi volumi Fotografia, storie, generi, iconografie, seconda edizione, Bologna 2011, Le icone fotografiche del “Grand Voyage” tra fine Ottocento e primo Novecento, Bologna 2012, L’Ultima posa il ritratto funerario e il suo contesto funebre, Roma 2013

di Alberto Manodori Sagredo