Di Chiara Formica
È il 24 marzo 2021, ore 16 circa, quando una commissione formata da professori e tutor del progetto Teledidattica Università in carcere di fronte allo schermo del proprio computer si appresta a vivere quello che avrebbe potuto essere soltanto un felice traguardo, ma che invece si rivelerà una lezione di vita, scivolata via tra la soddisfazione e la commozione strozzata nei silenzi.
Dopo un anno di contatti telematici e didattica a distanza, a svelarci l’autentica espressione della cultura è stato Giuseppe Gambacorta, primo studente detenuto ad aver conseguito una laurea magistrale in Scienze dell’informazione, della comunicazione e dell’editoria, con il supporto del Professor Alberto Sagredo Manodori, come relatore di tesi, e il Professor Fabio Pierangeli, correlatore.
Discuteva il suo lavoro, Porto Empedocle: la mia Itaca. L’attimo eterno della fotografia, dedica di un ergastolano alla sua terra, di cui ricostruisce, grazie ad un’accurata e corposa raccolta fotografica, una fisionomia che dopo oltre vent’anni di galera è ormai sfocata e piuttosto surreale.
Ogni membro della commissione nella propria casa o nel proprio studio ad assistere al meraviglioso epilogo di un percorso intenso e sicuramente più tortuoso rispetto a qualsiasi altro percorso universitario intrapreso da chi gode della libertà di movimento.
La tesi di Gambacorta presenta una struttura ciclica, interamente pervasa dalla speranza di poter nuovamente baciare e abbracciare la sua Porto Empedocle, come Ulisse riuscì a fare con la sua Itaca.
La Torre del Caricatore di Girgenti apre la stesura della tesi come uno squarcio su una tela, dietro alla quale un uomo ha fatto della ricostruzione fotografica l’espediente letterario per incorniciare la sua vita fino a qui. Nel 1848, come spiega Gambacorta, la Torre si fece teatro di un massacro: «114 reclusi furono condannati a morire tra le fiamme dell’inferno senza alcuna pietà e senza alcun tentativo di salvarli».
A chiudere la tesi, invece, il celebre canto III dell’Inferno dantesco: «Per me si va nella città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: fecemi la divina potestate, la somma sapienza e il primo amore. Dinanzi a me, non fur cose create se non eterne, ed io eterna duro: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate».
Tra la perduta gente, nel suo eterno dolore, Giuseppe Gambacorta ha saputo raccogliere pezzo per pezzo la disperazione che potenzialmente sa distruggere qualsiasi essere umano e renderla al contrario un manifesto di speranza, una testimonianza unica in cui vulnerabilità e coraggio si uniscono in un coro straziante e allo stesso tempo equilibrato.
Tra le righe di questo lavoro, ho sentito la voce di Giuseppe far vibrare le sue corde più profonde e autentiche. Attraverso quelle pagine le sue braccia rimangono tese verso l’esterno, mentre la sua essenza vive la paradossalità di una liberazione già avvenuta, ma in un luogo di prigionia.
Da tutor del progetto, più e più volte mi sono ritrovata a chiedermi se la presenza dell’università in carcere non costituisse l’ennesimo motivo di sofferenza per chi lì vive recluso: quanto coraggio serve per acquisire gli strumenti della conoscenza, trasformarli in capacità critica e consapevolezza, evolversi, andare oltre ma rimanere fermi, bloccati nello stesso pezzettino di mondo?
In carcere, tra le persone che studiano dandosi la possibilità di uno sguardo che sia altro, ho trovato la versione più viscerale dell’intellettualismo etico. Darsi l’opportunità di sapere richiede coraggio. Concedersi l’opportunità di provare dolore richiede coraggio.
Sono profondamente grata a Giuseppe Gambacorta per averci mostrato l’autentico volto della cultura, che è eroico coraggio, per aver messo i primi mattoni di un ponte sul quale ci siamo incontrati e scambiati qualcosa. Gli sono grata per aver smesso di «maledire l’oscurità», per averne accarezzato le radici, le rughe più marcate, i vizi sedimentati e per aver reso la Torre di Porto Empedocle un luogo da cui partire e di fronte al quale non sentirsi perduto. Per aver accesso una lampada sulla grande questione dell’ostatività e dunque su quella Torre, in cui “114 reclusi avrebbero meritato una fine migliore”.
«Quel che resta di te terra mia, dei tuoi ricordi, è ormai solo cenere calda, cenere da stringere la notte quando sui miei occhi si posa l’assenza profumata di tempesta, di quei tempi lontani.
Se oggi torno a scriverti e pensarti, cercando di ridisegnare il tuo sorriso, le tue coste frastagliate e pittoresche, lo faccio per dirti finalmente che non intendo mai più dimenticarti! Lo faccio per dirti che voglio tenerti per sempre con me e, se anche lo devo fare attraverso la visione delle fotografie, mi godo l’eterno ricordo nella speranza che nel silenzio e nel buio delle notti insonni, tu possa tornare a me, comparire sulle ali di vertigine, tenendomi come un ricordo sospeso nel tuo passato, perché soltanto così potrò essere ancora felice. Sarà questo un magnifico mistero, che mi darà il coraggio di guardarmi dentro e ricordarmi finalmente della tua bellezza, contingente eppure immutabile.
Sinceramente prima di oggi non potevo immaginare quale sarebbe stato l’effetto di questo esilarante ricordo della mia terra, quale emozione mi avrebbe suscitato la necessità di parlarle sotto voce ogni notte a luce spenta, quando è già tardi per dormire, chiederle di tenermi compagnia.
Sono certo che non c’è male in questo amore virtuale, è come dipingere il suo volto in una magnifica notte d’estate, colorare di magnifici colori il meraviglioso momento in cui la notte cede il passo al giorno. Sarà questa la mia penitenza per essermi dimenticato di Lei, scriverle e scriverle ancora liberando così l’anima imprigionata da oltre vent’anni di galera, libero solo di guardare attraverso le sbarre arrugginite poste a protezione di una finestra.
Sarà bello passare così le mie nottate dedicandole i miei pensieri che al mattino slego per legarli di nuovo la sera, nel timore di perderli tra la folla e la follia di quel bailamme di eventi, spesso nefasti, che tentano in ogni modo di spegnere il mio schermo e far sì che tutto si oscuri per l’eternità».
Giuseppe Gambacorta, Porto Empedocle: la mia Itaca. L’attimo eterno della fotografia