Qualche anno fa un gruppo di detenuti, tra cui io, fu invitato a partecipare ad una serie di incontri settimanali con due psicologi dell’istituto, dei quali conservo uno straordinario ricordo. Si parlava di famiglia e di alcune tematiche esistenziali. Gli incontri si sono sviluppati nell’arco di un anno e, nel complesso, sono stati un esperimento rilevante, se così possiamo dire: insieme al percorso di studi universitario e a tutte le nuove conoscenze che avevo acquisito e che continuavo ad acquisire, hanno contribuito all’elaborazione del mio vissuto e della mia attuale situazione. Ecco cosa scrissi alla fine del corso:
«L’esperienza del gruppo con gli psicologi dell’istituto è stata molto importante. Nella mia esperienza del carcere non era mai successo prima d’ora. Un anno di incontri settimanali, il tema della famiglia, un argomento intimo, personale, un argomento che di solito si cerca di custodire per sé. Ma nel gruppo, sotto la guida degli psicologi, è stato diverso, c’è stata un’apertura diversa da parte di tutti e, come una reazione a catena, siamo stati tutti coinvolti e contagiati.
Ci siamo sottoposti a test, abbiamo simulato per rivivere certe situazioni. Siamo stati stuzzicati, stimolati e a volte anche provocati. Abbiamo aperto la porta di casa e abbiamo fatto entrare anche gli altri, abbiamo ripercorso la casa entrando nelle varie camere, dando senso ad ognuna di queste. Siamo andati anche in cantina e affacciati nello scantinato. Abbiamo scavato e trovato alcune risposte, ma anche altre domande, ci siamo emozionati.
Negli anni passati in carcere mi sono accorto che ognuno mantiene le sue posizioni: l’istituzione e gli operatori nella parte del giusto, della legalità, nella posizione del punire e i detenuti nella posizione dell’illegalità, sì! Ma giustificati da tutta una serie di circostanze che li fanno sentire discolpati per i reati commessi (per chi li ha commessi) e per la vita che facevano. C’è sempre stato un muro.
Col tempo questo muro ha cominciato ad avere delle crepe e, grazie allo studio a cui si sono dedicati molti detenuti ed operatori preparati, questo muro ha iniziato ad essere smantellato. Oggi è un’epoca nuova. Oggi, da parte degli operatori e di una fetta delle istituzioni si è avvertita l’esigenza di ascoltare, di sentire anche le nostre ragioni e anche di capire più approfonditamente le origini della devianza. E da parte nostra è venuta la volontà di metterci in discussione, di esprimerci.
Forse, nel mio caso, avrà contribuito pure l’età, sarà stato pure il fatto di aver studiato ed aver avuto la possibilità di maturare una percezione diversa della realtà, ma partecipare a questo corso ha aggiunto qualcosa in più al mio percorso. Mi ha reso più cosciente della tragicità della mia vita, delle nostre vite.
E allora vorresti cambiare il corso delle cose, vorresti che i giovani non vivessero la tua esperienza, soprattutto quelli che vivono in contesti simili ai nostri. E allora ti metti in discussione e, con azioni concrete e buoni esempi, cerchi di trasmettere questa consapevolezza, questo tuo percorso, questa tua revisione critica.
Non sempre, però, queste cose bastano e ti rendi conto che da solo non puoi farcela, che hai bisogno degli altri, hai bisogno delle istituzioni. In questo senso il contatto con gli operatori diventa fondamentale. La vita in questo luogo non è facile, soprattutto per chi ha una famiglia fuori.
Ogni giorno è una battaglia, quanti colpi ricevuti. E adesso, con la consapevolezza, fanno ancora più male, eppure ti rialzi e vai avanti. Prendi un altro colpo e provi ancora dolore, ma non ti arrendi perché sai che questa nuova visione è quella giusta. Vai avanti, ma sai che da solo non ce la puoi fare, perché se nessuno ti verrà incontro, se nessuno avrà fiducia in te e riconoscerà il tuo percorso, combatterai contro i mulini a vento.
Tu sei sicuramente cambiato e ce la metti tutta per rendere partecipi gli altri della tua nuova visione e per farlo ci vuole coraggio, ma sai che serve anche il coraggio degli altri».
di Giovanni Colonia