E il brusio? Il formicolio delle vite che passano, il sottofondo di chi abita o attraversa per caso un posto, il continuo vociare. Abbiamo avuto modo di sentire il silenzio delle città, il vuoto dei marciapiedi e i rumori timidi delle poche persone fuori e quell’eco ci sta facendo ancora del male.
Ogni brusio ha la sua voce che, ascoltata superficialmente, sembra indecifrabile eppure niente è incomprensibile se lo si ascolta.
Il brusio è ovunque, anche in carcere. È nei corridoi, negli angoli che non conosco, nelle celle che non ho mai visto, nelle aule studio. È il fermento delle vite che si passano vicine e si scambiano qualcosa. Ci incontriamo tutti dentro un qualsiasi brusio.
La didattica in carcere ha il compito di lavorare su questo fermento insieme alle persone coinvolte, le persone recluse, le vite bloccate ma non ferme. Da un’unica voce poco nitida a tante, più chiare e distinguibili: il potere liberatorio della cultura, a discapito di qualsiasi ragione repressiva.
La didattica a Rebibbia è fatta di piccole e grandi cose che camminano all’interno di un triangolo imperfetto e fin troppo umano: studenti, docenti e tutor calati nella realtà di un ambiente punitivo, sporadicamente accogliente. Non si tratta di esami e lauree, studiare in carcere è anche questo, ma prima di ogni altra cosa è riconoscimento, un diritto che ognuno deve poter avanzare nei confronti di se stesso e di chi lo circonda.
E il tempo? Il tempo dura quanto vuole. Si riempie dei nostri battiti, concedendosi rapidamente senza mai una sosta. Nel suo scorrere impietoso si presta per il tempo di una vita e niente altro. Il tempo del 2020 ha scalfito la fisionomia dello spazio a cui eravamo abituati, ormai è ristretto e troppo consueto, ma contemporaneamente ha saputo dilatare se stesso, esasperando l’intransigenza della mancanza.
Il distanziamento sociale, come misura preventiva alla diffusione del covid, ci ha insegnato a centellinare gli affetti, a razionarli per averne sempre quel tanto che basta quando occorre. Nell’imbuto carcerario il tempo, con il suo rigore, è una clessidra spietata, che ha a tutt’oggi l’urgenza di riempirsi di vissuto e non di passività e punizione.
La didattica in carcere prefiggendosi questo obiettivo non poteva arenarsi totalmente a causa del distanziamento sociale. Perfettamente consapevoli che questo tempo vissuto a distanza non potrà essere recuperato, abbiamo fatto della presenza virtuale e della corrispondenza telematica due appigli per continuare ad esserci. Tesi da ultimare, esami da sostenere, confronti da proseguire.
E il riconoscimento? In fin dei conti tanto brusio, tutto questo tempo, ma per cosa? È vero che un uomo che si restituisce la possibilità di sapere è un uomo che restituisce a se stesso la responsabilità di esistere fuori dall’ombra di un reato o dal dirupo del proprio passato, ma nella realtà dei fatti è solo il primo passo. È il passo che compiono insieme studenti detenuti, docenti e tutor verso l’esterno, ma non riusciremo a portarci fuori totalmente: abbiamo bisogno che le varie componenti sociali abbandonino i falsi moralismi e la retorica obsoleta per incamminarsi verso di noi e toccare con mano ciò che stiamo facendo.
“Chiara, non abbiamo alcun potere sui cancelli!”, mi disse il prof. Piero Vereni al mio primo ingresso a Rebibbia, quando ripetevo lo stesso gesto meccanico e privo di significato cosciente cercando di spingere i cancelli di fronte a me per aprirli. All’epoca sorrisi goffamente, ma ancora oggi mi chiedo se quelle parole suggellassero un’amara verità alla quale non vogliamo arrenderci.
Il brusio è bello. Abbiamo bisogno di esserne parte. Il brusio va sentito, è questo il compito del nostro tempo.
di Chiara Formica