Quando ho incontrato Massimiliano di lui mi hanno colpita il sorriso furbo e gli occhi stanchi, lo spirito critico e la battuta pronta, la vena propositiva e quella polemica. Un giorno, parlando della Divina Commedia, Massimiliano non ha risparmiato nemmeno Dante Alighieri e ci ha tenuto a specificare che certamente si trattava di un grande autore ma lui non poteva prendere per oro colato le parole dei libri, doveva smontarle e ritrovarne il senso per farle calzare addosso come un vestito. Poi ha aggiunto qualcosa che, parafrasando, suonava così: “Ho una condanna lunga io, con una laurea non ci faccio nulla. Studio perché soltanto in questo modo posso acquisire strumenti per pensare diversamente”. Questa frase è il sottofondo che mi porto dentro e mi accompagna ad ogni passo. Ed è qui che ho sentito risuonare il senso della mia presenza in quel luogo.
Il carcere è lo spazio dei paradossi e delle contraddizioni. I muri sono alti, troppo per qualsiasi essere umano. I cancelli sono imponenti e quando sbattono alle spalle la sensazione è che non ci sia più spazio per un’apertura: nessuno spiraglio, solo scelte definitive. Il silenzio, così eloquente, improvvisamente può essere spezzato dal frastuono. Il tempo si dilata così tanto da perderne la nozione, quasi come esistere in una dimensione altra. Il carcere è ricchezza e abbandono, spirito e corpo, profondità e sguaiatezza; le persone che lo abitano sono il sommerso che tenta di diventare voce sospirando “Io esisto”.
In una società – la nostra – che ci chiede continuamente di essere pronti, performanti, produttivi quello di Massimiliano è un messaggio potentissimo: la cultura non serve, ma la sua importanza è proprio nella forza di quell’inutilità. Il sapere, quell’afflato che spinge verso la ricerca della conoscenza, non è il mezzo ma il fine, ciò che permette di definirci umani.
In carcere non è facile ricordare di essere un uomo, perché farlo acuisce la mancanza.
In carcere non è facile ricordare di essere un uomo, ma in quelle ore passate a discutere dello scarto tra realismo e verismo – Io nun ce la trovo la differenza, me vogliono imbroglià – nelle giornate spese a leggere poesie di Montale che ne ispiravano di nuove, nel bel mezzo di una crisi provocata dalle guerre di religione – Troppi nomi, non ce la faccio – durante gli esercizi infiniti per imparare il Metodo di Lachmann – A ≠ B quindi B ≠ A, ho capito – ecco, proprio lì, ho imparato che uomo e donna sono nomi propri che scegliamo di darci ogni giorno, tutte le volte in cui conquistiamo la forza di reimparare la libertà.
In carcere ricordare di essere un uomo è una scelta, un atto di coraggio.
E noi cosa siamo chiamati a fare? La prima cosa, la più importante, accogliere quel sospiro affinché diventi voce profonda e rispondere, così, “Tu esisti”.
di Alessia Lambazzi